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giovedì 12 febbraio 1998

Piz Palù, Direttissima Bumiller, invernale

Con Diego Fregona vogliamo ripetere in inverno la via diretta sul bastione roccioso dello Sperone Bumiller al Palù (di R.Nottaris e C. nell'inverno del 1976 in due giorni di scalata) ma quando arriva l'alba ci accorgiamo di aver salito una nuova linea più a destra (circa 10 tiri su roccia e un po' di misto).
Raggiunto il classico Sperone Bumiller, proseguiamo direttamente sul filo con divertenti tratti di misto e dry tooling,  superando infine il seracco e sbucando alle ultime luci del giorno sul plateau del Palù centrale dopo 13 ore di scalata.


(racconto dopo la salita)

La parete Nord del Pizzo Palù mi ha sempre attratto. Come una bella donna, l’ho corteggiata spesso senza però riuscire a trovare la chiave del rebus che mi avrebbe consentito la sua salita. Così negli anni passati, a volte da solo, la guardavo dalle vetrate del rifugio Diavolezza e cercavo di capire che cosa avrei voluto salire su quella parete. Una via nuova? Uno dei tre speroni in solitaria? Tutti e tre in un giorno? Per mia fortuna i dubbi venivano cancellati da interferenze climatiche come neve, vento e maltempo generale che mi rispedivano a casa in compagnia di un nulla di fatto.
Quest’inverno, complice un’alleanza con un attivissimo elemento bergamasco, Diego Fregona, sono riapprodato al famoso punto morto della vetrata del Diavolezza. Ho le idee più precise al riguardo; vogliamo salire lo sperone centrale attaccando per la via degli Svizzeri sul bastione basale, componendo così una delle più lunghe e tecniche salite del massiccio del Bernina. Il programmino è niente male ed è frutto di una delle mie consuete giornate dedicate all’ideazione della prossima salita. Sfogli libri e ammiri fotografie finchè un tarlo si impadronisce delle tue facoltà decisionali. A volte il tarlo è quello buono, mentre in altre occasioni può farti rimpiangere di esserci andato dietro con troppo entusiasmo. Questo però possiamo saperlo solo domani o dopodomani
E’ la casualità che ci porta in rifugio poco prima dei festeggiamenti di rito ad ogni luna piena. Camminando lungo il modernissimo Diavolezza notiamo quest’atmosfera di attesa per la musica che invaderà questa sera il locale.
La funivia riaprerà alle undici di sera e gli sciatori si trasferiranno qui per mangiare e bere prima di rituffarsi sulla pista illuminata dal plenilunio. Ci rammarichiamo non poco di aver sbagliato, di non aver anticipato di un giorno la partenza per un’ascensione così lunga ed impegnativa.
Sono le undici passate comunque quando saliamo nella nostra cameretta per gustarci il sonno con 2 birre in corpo, in compagnia di due altri alpinisti svizzeri che domattina partiranno anch’essi per la via classica dello sperone centrale.
Si dorme così bene in questi rifugi-alberghi che la sveglia delle quattro è tutto sommato meno pesante che altrove e un’ora più tardi siamo già sul ghiacciaio pianeggiante che accompagna dolcemente verso la parete. Io con i miei sci lunghi poco più di un metro e Diego con le sue racchette da neve.
All’attacco si cominciano ad intravvedere i primi chiarori del nuovo giorno e, lasciati sci e racchette, cominciamo la nostra avventura in parete iniziando dal punto più classico e rinomato, il crepaccio terminale.
Lo sperone basale nella notte appariva decisamente impressionante, verticale e nero come il carbone. Da qui invece lo possiamo un po' ridimensionare, non tanto nella sua altezza quanto nella nostra possibilità di salirlo il più velocemente possibile, con scarponi ai piedi e con la fiducia che attribuiamo ai foglietti che ho in tasca.
Quando tocchiamo le rocce tiro fuori il foglietto, capolavoro di microscrittura computerizzata che dovrebbe indicarci la salita a fette di 5/10 metri. Mi aveva quasi spaventato questa relazione, così minuziosa e fin troppo pignola in ogni suo particolare: “Salire per 3 metri diritti, traversare 8 metri a destra e poi superare direttamente un’evidente placca compatta...”. In men che non si dica le placche evidenti diventano dieci, cento, forse più. In questo dedalo di rocce e cengette ci perdiamo subito e dopo 2 lunghezze di corda, all’ennesimo appello di Diego sul dove dovrebbe essere la via, decido di liberarmi di questo peso e di salire dove saremmo riusciti a salire con più facilità. E’ così che ci ritroviamo a compiere delle lunghe curve per aggirare i muri rocciosi più lisci e compatti, in sostanza inaccessibili con guanti, scarponi, ramponi fino a poco fa, una piccozza allacciata alla mano destra e via dicendo. A comando alterno la salita si svolge rapidamente e all’arrivo in sosta del secondo di cordata segue rapidamente la partenza dello stesso, dopo il rituale del passaggio del materiale.
Siamo veloci, ad eccezione di qualche intoppo dovuto a friends che non escono più oppure a passaggi che richiedono attenzione, ma solo dopo 5 ore sbuchiamo sul filo dello sperone Bumiller, all’inizio del secondo tempo del nostro film. Riesco a bloccare per un attimo il frenetico compagno e mi gusto la prima sigaretta dello sperone, alternata a sorsi di Guronsan che dovrebbe riavviarci un poco.
Aggirato sulla destra il primo dente roccioso davanti a noi, siamo sulla scia delle orme dei due svizzeri di ieri sera in rifugio, visibili già molto in alto sullo sperone. Per un attimo li invidio molto, soprattutto pensando a tutto quel bastione roccioso che separa noi da loro. In cima alla crestina di neve, ricomincia la scalata sulle rocce e due tiri più tardi sono impegnato nel più spettacolare passaggio della via, o meglio, di una sua variante: aggancio rovescio con i guanti; recupero volante della piccozza e secondo aggancio in alto, sopra il tetto, con la lama; dopo averlo ripulito dalla neve, appaio la mano sinistra sul grosso appiglio piatto da qui parte la trazione che mi permette di scavalcare questo tetto.
Affaticato dal singolo passo, recupero Diego poco dopo.
Proseguiamo su queste rocce che stiamo ridimensionando sempre più, conteggiando l’inaspettato numero di tiri che ci ritroviamo a salire verso il grosso seracco che ci sovrasta. E’ quasi notte quando siamo alla base di esso.
Un primo tiro su ghiaccio vetroso ci conduce sotto uno strapiombo dove rinveniamo un chiodo da ghiaccio lasciato dai nostri predecessori. Abbandonata l’idea di un’evoluzione notturna sul ghiaccio a 100°, mi calo dal chiodo aggirando la prua del seracco e traversando poi verso un pendio più accessibile. Diego recupera tutto e mi raggiunge in breve, continuando poi verso il bordo superiore del bastione glaciale. E’ decisamente buio e siamo ben più rilassati quando capiamo che lo sperone perde la sua difficoltà, sulla calotta glaciale che conduce alla vetta.
Un’ora più tardi eccoci su questa vetta illuminata dalla luce lunare, in un paesaggio fantastico a cavallo tra Italia e Svizzera. Senza sostare, attraversiamo l’affilata cresta verso la vetta orientale, oltre la quale scendiamo verso il passo da dove dovremo poi ritornare verso la base della parete.
Senza sostare, attraversiamo l’affilata cresta verso la vetta orientale, oltre la quale scendiamo verso il passo da dove dovremo poi ritornare verso la base della parete.
A mezzanotte, quando vedo finalmente quel mostro di resistenza di Diego crollare sul ghiacciaio, capisco che la faccenda è stata faticosa. Ventun’ore di non stop dalla sveglia ci riportano alle buie vetrate del rifugio.

Ultimi tiri sul bastione roccioso della parte bassa

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