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sabato 5 agosto 1995

Jumar Iscariota, prima ascensione solitaria

Badile parete NW, al centro il Pilastro a Goccia (foto M.Volken)
(racconto del 1995 pubblicato su Intraisass)

Dieci giorni di torture al fisico sotto forma di alcool, fumo, donne e altre porcherie, dieci giorni di completa dimenticanza dei problemi alpinistici del momento, dieci giorni nei quali non mi ero più riconosciuto, poi ho capito che forse sarebbe stato meglio non essere riuscito a farla. “LA Via” mi aveva succhiato il cervello ed in quei giorni successivi, con una Marlboro fumante in bocca, ero costretto a battere i tasti del computer per ritrovare l'origine del mio soprannome, vale a dire un fanatico arrampicatore in cerca di emozioni forti, avventure totali e rischi da aggirare sapientemente.
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Agosto 1995.
Un sogno di ben straordinario calibro mi coinvolse qualche anno addietro. Era quello di percorrere in solitaria la via più difficile della montagna a me più cara, il Pizzo Badile. L'itinerario, denominato simbolicamente “JUMAR ISCARIOTA”, era stato salito quasi dieci anni prima da un grande alpinista e straordinaria persona quale era Tarcisio Fazzini, caduto nel pieno della sua ascesa verso l'olimpo dei top alpinisti, anche se lui, con il suo carattere modesto, non avrebbe forse voluto ricoprire questo ruolo. Ricordo ancora con piacere e con molto rammarico quella volta che non mi aveva voluto portare in una delle sue imprese, semplicemente perché non possedevo ancora la maggiore età e i miei genitori vigilavano attenti sulla mia frenetica passione. 

Quando tre anni fa percorsi la via con un amico, la trovai difficile, esposta, con molti tratti ‘indimenticabili’ sotto il profilo dell'impegno mentale, insomma... un itinerario che racchiudeva tutte le caratteristiche per poterlo inserire fra le ‘Top Routes’ del Masino e non solo. Che cosa mi spingeva solamente il pensare di tentarlo da solo? 
Forse il fatto che con questa via avrei praticamente chiuso il conto, avrei salito quanto c'è di più engageé da salire in solitaria qui nella zona? 
O forse è stato il desiderio di chiudere la bocca a qualcuno che aveva acceso suo malgrado una competizione di ‘prime solitarie’? 
O magari volevo dimostrare qualcosa, a chi? 
No, questo no, poiché arrampicare da soli per ricevere solamente i ‘bravo!’ al ritorno non poteva essere lo stile più adatto. Questo mi avrebbe presto portato in un tunnel senza via di uscita, un modo per accelerare la fine della propria esistenza. Successivamente, ho capito che è stata la ‘mia’ salita perché non sono riuscito e non ho avuto la voglia di parlarne con nessuno, gente che oltre ai gradi e alle ore impiegate non poteva capire un granché delle mie motivazioni.
L'alpinismo solitario può trasformare un uomo in una scatola chiusa.

Fine luglio.
Dopo un tentativo fallito pochi giorni prima al Grand Capucin del Monte Bianco, mi sentivo ora ancor più determinato per ‘la salita’. Il fallimento aveva caricato il morale e il fumo che annebbiava il cervello si era completamente diradato lasciando spazio alla concentrazione necessaria per un singolo momento che sarebbe durato non più di 48 ore. Stavo al capolinea; tutto quello che avevo imparato in quasi dieci anni sulla roccia lo dovevo sintetizzare ora per portare a casa la mia avventura. Ho già salito quest'estate tre vie difficili ma non ho avuto paura, è andato tutto bene, troppo bene... forse.
Una serata nei Bar della Val Masino mi introduce nel clima della vigilia, tanti “in bocca al lupo”, qualche bacio (almeno tre perché solo due portano sfiga!), i pensieri che pian piano viaggiano già sulle fredde placconate della via e poi giunge la mezzanotte. Accendo l'auto e saluto tutti per l'ultima volta. Ho deciso di tentare la salita in giornata e non ho neanche in mente di dormire perché fra qualche ora sarò già in cammino verso la parete. 
Una donna è quello che serve per passare il tempo che manca allo start. Le donne hanno la capacità di sdrammatizzare le angosce che riescono a leggere negli occhi di un uomo e godono di questa situazione in cui il gentil sesso è forte e ti guarda dall'alto...
A casa sua, alle mie richieste di fare un tentativo di provare a fermarmi, in una situazione che solo un gay potrebbe abbandonare, la ragazza mi guarda e capisce che è solo un modo per metterla alla prova; io ho già deciso.
Alle 2 di notte scatto in piedi dalla mia posizione da sonno e abbandono la comodità di un momento che pochi avrebbero sacrificato. Questa è forse schiavitù! 

Riparto in auto verso la Svizzera con la radio accesa al massimo, canzoni esaltanti e sigarette che mi tengono sveglio. Al posto di frontiera un finanziere assonnato mi sbriga con un cenno veloce: “vada pure!”.
La notte in Val Bondasca è veramente cupa.

Sui tornanti che salgono a Laret sono inquietato dal buio, dai contorni dei colossi montuosi che scorgo a malapena in cielo. Poco prima del parcheggio, ho la sfortuna di notare alcuni bagliori che illuminano ritmicamente il cielo buio. I pensieri corrono rapidissimi: “sarà il solito temporale a Nord della Svizzera, lontano da qui”. Parcheggio l'auto al termine della strada, scendo e mi accorgo che il temporale notturno è più vicino di quanto pensassi, proprio sopra le creste dell'Engadina.
Che fare? Non ho voglia di terrorizzarmi subito, per questo mi basterà in abbondanza la salita del Badile che affronterò fra non molto. Ho molta paura dei temporali. So bene che i fulmini non scaricano necessariamente sulla mia persona ma - sfortunatamente cinque anni fa e magari fortunatamente per ora - un' esperienza di questo genere l'ho già sperimentata sulla mia pelle. Mi preparo titubante tenendo l'occhio vigile sul temporale, chiudo l'auto titubante, mi incammino titubante e, dopo cinque minuti, non più titubante ritorno in gran fretta all'auto. I lampi si avvicinano minacciosamente e sono felice di chiudermi dentro la jeep al riparo dalle capricciose bizzarrie meteorologiche. Qualche goccia portata dal vento comincia a scendere mezz'ora dopo e poi più niente, le nubi lampeggianti si dirigono verso altri siti a spaventare altri alpinisti notturni fifoni come il sottoscritto. Svanisce così il mio tentativo di salita diretta in giornata e rimpiango di non essere a casa della ragazza che ho salutato neanche due ore fa... Vabbé, cerchiamo almeno di dormire qualche oretta. Dopo aver tentato la via del sonno sul sedile di guida, decido di trasferirmi dietro, dove riesco a stendermi accovacciato e chiudere gli occhi per un'ora circa. Mi sveglio all'alba, intirizzito dal freddo e dall'umidità, mi ripreparo per la seconda volta e saluto definitivamente l'auto. Cammino lentamente verso il Rifugio Sasc Fourà e vengo superato da qualche alpinista che sale al Badile in giornata. Fra questi c'è anche un trio di ragazzi sondriesi che sale alla Nordest verso la via “Neverland”, l'itinerario che ho salito slegato nell'estate 1991. Per un attimo mi rivedo a danzare sui cristalli della roccia, senza corda, senza conoscenza della via, senza casco, senza paure e con l'incoscienza irrazionale dei diciannove anni. Oggi invece sono diretto verso il versante opposto, con la corda, con il casco, conoscendo già l'itinerario e con tantissima paura, la paura dei ventitré anni che compirò domani... All'incantevole rifugio saluto il suo gestore in cucina. Lorenzo, troppo simpatico e folle, con quella faccia da furbetto che non nasconde il suo passato da casinista e la sua voglia di divertirsi ancora. Il mio ricordo viaggia ancora fino a due anni fa, quando un alpinista era sospeso a metà parete sul Badile in attesa dell'alba e dell'elicottero che lo avrebbe prelevato. Quell'alpinista, a detta di Lorenzo, si era comportato scortesemente in rifugio; in pratica lo odiava un po', e l'incidente aveva contribuito di più alla felicità del gestore che la sera del fatto si ritrovava con noi e con un mazzo di fuochi d'artificio a festeggiare l'elvetica festa nazionale del Primo Agosto. Immaginate il poveretto, al freddo e al buio, seduto su una cengetta dispersa sulle placconate della Nordest, con il cielo illuminato dai fuochi d'artificio provenienti da ciò che più desiderava: il caldo rifugio. Adesso Lorenzo ed Anna mi preparano la colazione e la servono sui tavoli al di fuori del rifugio. Mangio molto e bevo molto, mi siedo sulle panche di granito e guardo verso la vetta della mia montagna. Quanto mi piacerebbe riuscire in ciò che ho in mente. 
Un'oretta di digestione e decido di salire verso la parete Nordovest per visionare le condizioni del ghiacciaio che porta all'inizio della via. So bene che i numerosissimi e grossi crepacci possono addirittura rendere impossibile l'accesso alla parete; è quasi già successo a noi tre anni fa, è successo ad altre cordate negli anni scorsi e quest'anno nessuno è ancora salito. Dopo un'ora di cammino sono all'inizio dei primi ghiacci, lascio lo zaino e mi incammino sulle lingue moreniche armato di piccozza e ramponi. Cerco di seguire una linea sicura che si districhi nel labirinto di seracchi e buchi. Sono solo e so che un errore qui potrebbe essere fastidioso. Il ghiacciaio, nonostante la tarda stagione, si presenta in buone condizioni e quest'anno consente un veloce e sicuro passaggio anche sugli ultimi due crepacci prima della parete. Poco prima dell'attacco di “Jumar”, visionato attentamente il labbro glaciale terminale, giro i tacchi e comincio la discesa che mi riporterà al rifugio.
Nel primo pomeriggio sono sotto le coperte a riposare, a cercare di dormire un po' per recuperare le ore di sonno che ho perduto ieri notte. Verso sera giungono in rifugio Guido e Lorenzo, il mio nuovissimo team d'appoggio costituito qualche giorno fa durante il nostro breve viaggio al Monte Bianco. Poco dopo arrivano in rifugio altri alpinisti e amici conosciuti fra i quali Giulio, compagno due anni or sono di una salita sulla Nordest del Badile, Simone, finanziere a Madesimo e Ciro, guida alpina e maestro di sci a Bormio. Quando vengono a sapere del mio progetto sono tutti abbastanza stupiti e cercano di tirare fuori qualcosa dalla mia mente offuscata che è già lassù, sulla ‘Via’. Prima del buio, Guido e Lorenzo decidono di salire alla base del ghiacciaio e dormire all'aria aperta per godersi una notte ‘diversa’, sotto le stelle, in attesa del mio passaggio di domani. La serata nel caldo rifugio passa velocemente tra discorsi alpinistici, pettegolezzi di rito e ricordi di salite precedenti finché, poco prima di raggiungere la branda, Giulio ed il suo amico decidono per l'indomani di salire anch'essi sul Pilastro a Goccia dove tenteranno la via “Galli delle Alpi” che passa giusto accanto alla mia. Ho promesso il mio aiuto sul ghiacciaio poiché non hanno con loro né piccozza né ramponi. Perderò del tempo ma avere qualcuno a fianco mi rassicurerà in parte. A nanna! Mi addormento subito, dormo bene ma sembra che sia passato solo un attimo quando sento l'orologio, impietosamente, ritmare i suoi suoni monotoni e digitali per annunciare la sveglia. 
Sono le 3 e 50 ed è anche il mio compleanno, nonché l'alba del grande giorno e il momento tanto atteso... Veloce colazione e poi tutti fuori dal rifugio per le partenze. Mi incammino prima di Giulio e Simone, la pila frontale illumina la traccia del sentiero che sale verso il ghiacciaio. Il peso della solitudine, come avevo previsto, si sente già violento ed immediato. Quando i due mi raggiungono sono già in prossimità del luogo dove ha dormito il mio team d'appoggio. Urliamo e ci guardiamo intorno per più di cinque minuti finché appare Guido che ci saluta e ci racconta della notte appena passata, non troppo tranquilla a causa di un temporale che pareva avvicinarsi velocemente. Andiamo avanti, siamo al ghiacciaio e recupero lo zaino che ho lasciato qui ieri, al riparo di un grosso masso. Calzo i ramponi, impugno la piccozza, mi lego con una corda di Giulio che li aiuterà nei tratti ripidi e saluto Guido e Lorenzo che saliranno più tardi verso la base della via. La salita del ghiacciaio avviene abbastanza velocemente anche se spesso devo fissare la corda per permettere a Giulio e compagno di superare i tratti ghiacciati. Il mio occhio è già sull'itinerario che ho sopra la testa e cerco di rileggere lo schizzo della via proiettato mentalmente sulla roccia.
 Come spesso mi succede sotto la parete, comincia la maledetta paura; sono teso, avrei voglia di tornare a casa, vedere il brutto tempo, vedere il bagnato e l'impraticabilità della via, vedere qualcosa che mi possa fermare. E' incredibile, allo stesso tempo riesco a rifiutare e detestare ciò che qualche giorno fa accettavo, desideravo e volevo con tutta la mia anima e le mie forze.
Sono ancora sconosciute e rimarranno sconosciute le motivazioni per affrontare una via alpinistica in solitaria. 
Alle sette e trenta sono pronto, in piedi sul bordo che separa la materia liquida-ghiacciata da quella solida-rocciosa. Un movimento in spaccata e finalmente entro in azione, partendo per quella che dovrebbe essere la ‘salita dell'estate’. Il primo tiro lo percorro slegato, facendo attenzione alle scarpette ancora bagnaticce, alle mani fredde ed alla momentanea durezza articolare dei movimenti. I miei due amici a fianco partono anch'essi e ci troviamo ad arrampicare paralleli a poca distanza l'uno dall'altro.
Prima sosta, cengetta a quaranta metri da terra, recupero lo zaino a forza di braccia e preparo tutto il laborioso apparato per l'autoassicurazione. Questa è un'operazione che detesto: sistemare la corda ben srotolata nello zainetto, rinforzare la sosta in modo che regga uno strappo verso l'alto, agganciare il “Soloist” all'imbragatura... dieci minuti di lavoro ogni sosta e dieci minuti di tempo in meno per la via. Ho le mani ancora fredde e sono già preoccupato per i primi metri del secondo tiro, quel VII grado bastardo che mi darà la sveglia definitiva oppure mi ributterà di sotto, nel mare delle incertezze o delle sconfitte. Parto deciso, cerco di dimenticare il tutto e mi affido a quelle meravigliose scarpette che ho ai piedi. Mi avvicino allo spit [...] che ha guardato dall'alto le mie evoluzioni su questa placca cristallina quasi verticale. Ci sono. Un ultimo sbilanciante ristabilimento e moschettono la tanto desiderata piastrina dall'apparenza alquanto vecchiotta. Il resto della lunghezza è più facile e mi ritrovo velocemente in sosta. Alla mia destra la cordata di amici invece subisce un duro colpo. Nei primi metri del tiro, forse tradito da un appiglio, Giulio cade per circa cinque o sei metri, urtando con i piedi la cengetta della sosta. Assisto con freddezza al fatto e vedo Giulio che, appeso alla corda pochi metri sotto la sosta, si lamenta e si dispera del dolore al piede. I due si calano fino al ghiacciaio dove sono appena giunti anche Guido e Lorenzo che li aiutano nei primi soccorsi.
Ed io? Eccomi qua, immobile, freddo, ormai quasi impassibile, con in tasca già uno dei tiri più temuti della via e soprattutto con la nascente determinazione necessaria per affrontare il resto. I quattro si ritrovano alla base della parete cento metri sotto di me e provano a scendere sorreggendo Giulio. Ad un certo punto chiedo loro se hanno bisogno di un aiuto. Lo so, butterei all'aria la salita, certamente non ritornerei più quest'anno ma la scusa di scendere ci sarebbe, ho ancora un filo di paura bastante e la mia mente è ancora codarda. E' l'amico Guido che mi distoglie da questi pensieri satanici : “No Luca, vai avanti... vai, vai!”. OK, sarà così. Chiamo con la mia radio il Soccorso Alpino di Chiavenna per comunicare l'accaduto. I soccorritori mi tempestano di domande inutili e non mi lasciano ancora partire per il tiro successivo, ad un certo punto vorrei dire loro: “Ma lo sapete da dove vi sto parlando? Sono sulla più difficile via di questa montagna, sono da solo e non ho più tempo da perdere!”.
“Signor Maspes, abbiamo avvisato la REGA Svizzera e saranno lì fra quindici-venti minuti massimo”. La frase mi distoglie per un attimo dai miei propositi cattivi. Rientro mentalmente nella mia ascensione ma, dopo circa venti metri, perdo ancora la concentrazione poiché è appena arrivato l'elicottero che recupererà Giulio. Dieci minuti ancora prima che il silenzio riconquisti me e la parete Nordovest del Badile. I tre amici rimasti scendono lungo il ghiacciaio con la mia piccozza ed i miei ramponi. Ora ho l'obbligo di uscire dalla parete perché in caso contrario non potrei neanche più scendere lungo il ghiacciaio. “Non pensare a queste cose!”, continuo a ripetermi nella testa. Sotto il piccolo tetto di A2 mi preparo per il difficile passaggio che si presenterà appena dopo il tratto d'artificiale. I voli di Luca e Teo, avvenuti durante le precedenti ripetizioni, non mi fanno dimenticare la sua difficoltà dovuta soprattutto alla roccia particolarmente umida in quel tratto. In piedi su una staffa artigianale cerco di afferrare gli appiglietti lontani sopra il tetto e, dopo due o tre tentativi, mi decido ad abbandonare il gradino di fettuccia sul quale stazionavo comodamente. Un piccolo gemito di sforzo esce dalla mia bocca, per un attimo mi sembra di cadere ma ciò non accade. Anche questa è andata! Gioisco del piccolo successo con un “olé!” urlato al vento, nella speranza che anche Guido e gli altri l'abbiano sentito. La quinta lunghezza la percorro slegato; dopo un primo traversino delicato di VI+ salgo quindi agevolmente e velocemente fino in sosta, dove vengo accolto da due pietre in caduta libera dallo Spigolo Nord e dalla scarica di adrenalina conseguente. Un'altra lunghezza difficile mi porta al famoso tiro dei pendoli. Qui mi fermo un attimo e comincio a riordinare le idee; la strategia di autoassicurazione che avevo studiato a casa sembra essere la soluzione migliore. Ho deciso anche di lasciar perdere la “Variante Lisignoli” che sale direttamente dalla sosta e di provare a seguire il percorso originale. Dopo un primo traverso a sinistra in leggera discesa arrivo ad una lama appoggiata che non mi conforta per niente. Un friend misericordioso lo piazzo in bella mostra comprendendone comunque l'assoluta inutilità.
Il piccolo diedrino che segue, liscio ed improteggibile, mi impegna notevolmente anche per la pericolosità del tratto. Raggiungo il primo chiodo e lo spit [...] successivo da dove partiranno i pendoli. Appeso all'arrugginita piastrina mi preparo in corda doppia e mi calo per qualche metro obliquamente. Con le scarpette puntate in aderenza riesco addirittura ad evitare i lunghi pendoli che avevo visto compiere tre anni or sono ed avevo preventivato di effettuare. Un ultimo tratto in artificiale mi porta alla sosta. I problemi comunque nascono ora: ritornare alla sosta precedente (quasi alla mia stessa altezza!) per recuperare il materiale e liberare le corde. La manovra è indescrivibile, complicatissima, non la voglio nemmeno raccontare. Alla fine dell'opera mi aspetta la ciliegina finale, la grande emozione di lanciarsi in pendolo su un cordino Kevlar da 6 millimetri molto resistente ma anche molto... sottile. E siamo alle fessure quando un leggero stato malessere fisico mi coglie ed un senso di nausea si impadronisce del mio stomaco. Cerco di salire velocemente la prima lama, slegato, con la cacarella che preme sempre di più. Giunto in sosta pianto più chiodi possibili e mi calo velocemente qualche metro sotto dove, in posizione aerea e precaria, slaccio l'imbragatura e faccio tutto il resto che lascio a voi immaginare. “Un regalo per i prossimi ripetitori”, penso tra me.
La lunghezza seguente è il clou della via. La spettacolare e faticosissima fessura che si staglia nel cielo aspetta i miei enormi avambracci per farli diventare ancora più grossi. Preparo tutti i friend sull'imbragatura e mi avvio lentamente, cercando di non sprecare energie. Man mano che salgo mi accorgo di non fare neanche tanta fatica. Un friend ogni quattro metri ed una buona velocità sono gli ingredienti essenziali per una ‘cottura’ minima su questa fessura-lama. Tre anni fa avevo sottovalutato il tutto poiché il grado dichiarato dal primo salitore era un relativo e semplice VI+. Tutti i ripetitori, fra i quali io, furono concordi invece nel parlare di VII/VII+, anche in paragone con le fessure del Monte Bianco. Oggi sono molto allenato in questo tipo di arrampicata e la mia paura di affaticarmi si è trasformata in vero piacere.
Le difficoltà calano pian piano e raggiungo una cengetta alla base del diedro bianco finale. Il diedro è un tiro abbastanza ostico, anch'esso sottovalutato in apertura, con qualche lama pericolante dato che si tratta di roccia bianca di frana. Salgo autoassicurato con attenzione fin quando - all'improvviso - appare la mia corda incastrata che avevamo abbandonato nel 1992 all'uscita del diedro. E' diventata bianca dal blu che era nuova; provo a tirarla ma non riesco a sbloccarla. All'uscita del diedro bianco comincio ad esultare in silenzio, la via è praticamente nelle mie mani ma l'esperienza mi ha insegnato che solo il letto di casa è la vera fine di una giornata in montagna.
Salgo slegato per le ultime due lunghezze che mi portano allo Spigolo Nord. 
Sono molto stanco ed ho una serie di crampi ai bicipiti per colpa delle risalite in jumar effettuate troppo velocemente. Abbandono qui l'idea di salire in vetta e scendere al Rifugio Gianetti: con lo zaino pesante e la stanchezza accumulata sarebbe molto, troppo pericoloso. Un traverso di cinquanta metri dovrebbe portarmi nella linea delle corde doppie. Fra le cordate che scendono c'è anche quella di Simone che mi invita ad unirmi a loro ma per raggiungerli mi aspetta una traversata tutt'altro che banale. Comincio ad arrampicare in leggera discesa, con lo zaino e con le corde trascinate che spesso vanno ad incastrarsi dietro qualche masso. Ad un tratto la corda da 10 millimetri non viene più. La tiro furiosamente, impreco, bestemmio (le prime della giornata), maledico il fatto di non averle riposte nello zaino. Dopo cinque minuti una grossa pietra che cade mi avverte di essere riuscito a disincastrare la corda nuova di zecca; non mi sarebbe piaciuto lasciarne qui un'altra, sospesa all'uscita della via.
Mancano pochi metri alle doppie ma la parete diventa abbastanza difficile. Preparo a questo punto una corda doppia con due chiodi, fettuccia nuova e moschettone luccicante; la salvezza non ha prezzo e ho bisogno di chiudere la partita. Sento la necessità di rilassarmi perché sono appena uscito da un elettroshock lungo più di dieci ore. Ho arrampicato per uno dei miei tanti sogni, davanti a me c'era solo la fine della via e null'altro. In questi minuti ho già perso più della metà della concentrazione, ho abbassato la guardia e sono entrato in una fase pericolosa, quella della stanchezza e della rilassatezza che potrebbero portare agli errori più stupidi. Non deve succedere questo, non deve succedere proprio adesso che ho appena compiuto ventitré anni.
Con la breve doppia raggiungo due scalatori inglesi che mi invitano ad usufruire delle loro corde già preparate. Un'altra doppia ed una cengia obliqua mi portano all'intaglio dove ritrovo Simone ed amici intenti a preparare le prossime calate. Mi affido completamente a loro. Per una serie di calate i miei unici pensieri sono quelli di infilare il discensore nelle corde, scendere, levare il discensore, assicurarmi in sosta e sedermi se è possibile. Chiamo Guido con la radio: “Ciao Guido, è finita, ho deciso di scendere da questa parte quindi puoi aspettarmi...”.
La voce di Guido è già commossa: “Come stai Luca?
Eh... Sono in uno stato un po'... diciamo confusionale!
Un'ora e mezza più tardi sono alla base dello Spigolo. Ringrazio e saluto gli amici che mi hanno trasportato in discesa e comincio a correre. La stanchezza si dissolve e viene schiacciata dall'euforia. Giungo al rifugio dove per prima cosa telefono a casa per tranquillizzare mia madre, già all'opera nella sua serie di telefonate ai vari rifugi intorno al Badile. Lorenzo offre da bere e la prima fetta di torta del mio compleanno mentre altri alpinisti conosciuti mi fanno i primi complimenti che arrecano piacere all'orgoglio. Qualcuno mi offre la prima sigaretta del giorno e per mia fortuna è una splendida Marlboro che rilassa il corpo stanco in maniera stupefacente. Non ho ancora ben chiaro di aver realizzato ciò che sognavo da qualche anno, di essermi ‘laureato’ tutto solo, sulla montagna più mitica delle Alpi Centrali.
Saluto tutti e ricomincio a correre verso Laret dove mi aspetta Guido. Non sento niente, non sento neanche i pesanti Koflach che ho ai piedi. Raggiungo il parcheggio saltellando di felicità. L'Audi Station Wagon di Guido è lì, ferma, non sembra che ci sia nessuno all'interno. Apro la portiera e vi trovo Guido che dorme disteso sui sedili reclinabili. Apre gli occhi, li strizza un po', focalizza il tutto e si illumina improvvisamente. 
Sei proprio tu Luca?”. 
E' fatta Guido, è fatta, andata!”. 
Ci abbracciamo felici, quasi commossi e consapevoli di aver vissuto alcune ore incredibili, impagabili.
Durante il ritorno in auto sono silenzioso e Guido deve impegnarsi molto per estrarre qualcosa dai miei pensieri. Ogni dieci minuti però sono io che faccio un urlo, ogni volta che realizzo il tutto e capisco che cosa ho combinato oggi, nel giorno del mio più bel compleanno. 
Poi la sera, in Val Masino, mi ritrovo a festeggiare con qualche amico, con la stanchezza che pian piano invade tutto il fisico e mi trasporta oltre, in un altro mondo di sogni, archiviando tutto ciò che ho costruito in questo memorabile 5 agosto 1995.


Nel disegno di Popi Miotti, la copertina del libro dedicato
a Tarcisio Fazzini, che indica il Pilastro a Goccia del Badile
 

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