Una via di Tarcisio Fazzini che ho sempre amato, piuttosto atipica nel Masino "regno delle placche" e così una via che ti spompa fino alla fine.
La prima volta la salii con Teo Colzada, poi qualche anno dopo in velocità con l'amico parmense Stefano Righetti... e infine la salita solitaria del giugno 2000 di cui feci un video e scrissi qualcosa su planetmountain
La storia del Picco e di questa via sull'annuario UP 2007
La prima volta sulla grande lama di "Elettroshock" |
SOLO SU ELETTROSHOCK
“Fatti trovare domani al ponte sulla statale, poi mi seguirai in auto per 2 minuti fino a…”.
Erano queste le ultime e ridacchianti parole che lasciavo al compleanno di mio padre, come chiusura dell’interminabile e grassa cena di rito che mi vedeva partecipe solo per metà. L’altra sponda dei miei pensieri forse se ne stava già proiettata verso quei progetti rompicapo saltati fuori così su due piedi, ciò che avrebbe avuto un suo inizio proprio il giorno dopo.
Così arrivava rapida la mattina seguente, con l’appuntamento prefissato e lo stupore immaginato di mio padre nel salire su un elicottero a sorpresa con una destinazione per lui ancora incerta.
Fare un regalo e ricevere un regalo nel giro di una trentina d’ore non poteva non essere una buona scusa per inaugurare l’arrivo della stagione calda sulle sempreverdi Alpi. Accendo la videocamera e mi siedo davanti sul mezzo volante, con una parte della mia famiglia dietro di me e insieme a loro Bruna, un’amica complice dello scherzo che ho in mente.
Per un quarto d’ora volteggiamo nel cielo della Valmasino, godendoci una giornata da spettacolo sulle cime rocciose ancora ricoperte dalla troppa neve primaverile. Procedendo verso Est, sorvolando le ultime valli del nostro giro sospeso, arriva anche l’atteso momento di far scendere il mezzo verso un punto ben preciso che indico al pilota. “Questo è il Picco, e domani salirò di lì”, sono le ultime indicazioni prima di congedare l’elicottero e i suoi passeggeri per lasciarli alla discesa verso valle. In cima alla Val Torrone con me è rimasta Bruna, la foto-reporter che forse si è sentita un po’ ridicola nel salire fin qui senza usare le sue allenatissime gambe… Due mesi più tardi infatti correrà brillantemente una gara di corsa sul sentiero dove siamo planati dal cielo.
E’ il primo giorno di giugno ed inizia una vestizione di friends e nuts per cominciare la salita della più faticosa e sostenuta via di roccia delle Alpi Centrali. Contrariamente a quello che forse sta pensando mio padre giù in valle, sceso dall’elicottero e spero appagato da questo regalo un po’ originale, Bruna non è qui con me per arrampicare ma per riprendere le fasi di un tentativo solitario e trasformarle contemporaneamente in video. Cavoli miei, quindi.
Alle due del pomeriggio dò il via alla scalata, con calma, visto che oggi la maestra Rampikina mi ha dato solo il compito di salire i primi 3 tiri fino all’inizio del muro verticale. Un po’ indeciso sul da farsi, parto slegato sul primo tiro, già un discreto 6a delicato farcito da problemi di orientamento. “Mannaggia, sono già salito due volte per sto tiro ed ora non mi ricordo più dove andare per trovar la sosta!”. Ed io che mi sono sempre considerato un computer per ricordare le cose… starò invecchiando? Perdendo tanto tempo e disegnando delle curvature strane sulla placca, ci vuole una buona mezz’ora per afferrare la sosta, dopo un improbabile tentativo di passare già verso la seconda lunghezza. E’ il filtro. Sul tiro seguente attende silenzioso il primo test della via, un passaggio obbligato che ha fatto tornare a casa diverse cordate e ne ha fatte esultare altre, anche se questa Elettroshock termina un 10 tiri più in alto. Ricordo quanto mi incazzai con un compagno di corso guida, quando mi fece notare che con i copperheads anche questo “filtro” della via poteva essere risolto con un artificiale “sporco” di martello e distruzione degli appigli. “E perché ti porti il mazzotto e questi aggeggi su una via praticamente tutta in libera?”. Potere del curriculum? “Necessità” di scalare in luoghi non alla propria portata? Ma stai a casa la prossima volta! Per fortuna che gli appigli sono ancora gli stessi e non hanno subito la tortura di essere sventrati da un cilindretto metallico riservato solo agli artificialisti incalliti. L’obbligato se ne va alle spalle, meglio dire sotto i piedi, e una prima pacca virtuale sulla spalla me la becco quando sbuco sull’ultima placconata che si innalza verso l’inizio dei “verticali”. Sono pieno di dubbi: incertezze che significano solo “inizio stagione” ma che forse ho già dimenticato con questo passaggio.
E’ qualche anno che i periodi estivi, quelli della massima forma fisica-tecnica, hanno preso una piega diversa dal solito: un progettone d’assalto prima dell’estate e poi il godimento/appagamento lasciato da esso per tutto il resto della stagione che è sì costellata da tante belle giornate da sfruttare ma anche da tante belle distrazioni da non dimenticare, quelle sfuggitemi durante un’infanzia votata ai monti. Sto invecchiando… una volta pensavo solo ed esclusivamente all’alpinismo!
Vabbè, proseguo inseguendo i rari spit con un po’ di attenzione perché la placca successiva è come al solito ornata dai rigagnoli d’acqua del pomeriggio… Sbatto contro la roccia gialla verticale e pongo fine a questo pomeriggio d’assaggio.
Lasciati attrezzati i primi tre tiri della via, ricoperti ora dalle mie 2 corde fissate per il giorno dopo, sono da Bruna pochi minuti più tardi, già indaffarata nella ricerca di un comodo praticello per bivaccare. L’Hotel Picco è pieno di neve e così l’hanno imitato tutti i bei massi e le piacevoli grottine che stanno sotto questa parete. Troviamo solo il praticello meno umido della zona per riuscire a dormicchiare un po’ e bruciare ogni grassa scorta di cibo dei nostri zaini. La notte arriva tardi, mentre dò un’ultima occhiata all’obelisco roccioso sopra la testa e mi proietto in sogno sui passaggi più bastardi di questa via.
Morgen!
Alle sei di mattina mi ficco in bocca la prima sigaretta che forse sarà una delle poche di questa giornata, e questo l’avevo capito già da ieri. Lascio una videocamera a Bruna e l’altra me la porto in parete per auto-filmarmi se ne avrò la possibilità (illuso!). Il primo sole del Picco mi saluta in cima alle 2 corde fisse e quindi ancora ai piedi del muro verticale e strapiombante. Si riparte sul duro, in un mix di passi in libera obbligati e qualche chiodo afferrato al volo per districarmi dalle ingarbugliate manovre di autoassicurazione. Non me la sento proprio di andare slegato sul 7c… ah ah ah!
“Ma a cosa cavolo si sono attaccati i cecoslovacchi per fare in libera questo tiro?”.
Nella mia salita “mista” del tiro distruggo completamente le braccia, e sì che erano allenate, cominciando a realizzare che la solitaria di questo Elettroshock sarà un problema non più tecnico ma forse solo di grande fatica: fatica nella scalata con zainetto e corda in spalla su tiri sempre sostenuti e sempre in fessure verticali, fatica nello scendere il tiro ripassando tutti gli ancoraggi messi in salita, fatichissima nel risalire infine le corde fissate in strapiombo e quasi sempre oblique. La somma di tutto l’avverto chiaramente alla quarta sosta, la prima conquista del giorno: “ma io da qui non esco più!"
Starei peggio se scendessi ora e abbandonassi tutto o se arrivassi in cima barcollante e ripieno di acido lattico?”. Problema di scelta dove per fortuna subentra l’orgoglio e il pensiero di tutto l’ambaradan per arrivare fino a qui, con elicottero costosissimo, amica distolta dai suoi impegni, ecc.
Mi sa che conviene per tutti che io prosegua, alla faccia di chi dice che si scala solo per se stessi.
Per fortuna questo tiro è diventato il vero “filtro” della via e lo comprendo quando comincio a divertirmi assai nel dopo. Un piacere differente da ogni forma di divertimento comune, forse solo il gusto di guadagnare qualcosa in attesa del premio finale. La fatica e gli avambracci sempre duri duri ostacolano infatti solo minimamente tutti i piaceri che mi vengono incontro nei tiri successivi: il pendolone, la fessura di 7b, la prima sigaretta in parete, una prima autoripresa di pochi secondi con la faccia bella sconvolta, Bruna che riprende tutta la scalata dal basso, una altro tiro slegato verso la grande lama…
Tutto questo diventa la solita routine da scalata solitaria, una sorta di meccanismo automatico che una volta sbloccato dai suoi ingranaggi arrugginiti trova posto in una macchina diesel che macina chilometri su chilometri, meglio dire metri su metri in questo caso.
La grande lama è uguale ad una “arrampicata sulla luna”, con 300 metri di vuoto sotto le chiappe e la bellezza anche storica che circonda questo tratto. Fazzini e compagnia, gli apritori di questa viona, avevano progettato tutta la loro linea intorno a questa lastra appoggiata alta 100 metri, da raggiungere prima, da cavalcare poi e da qui su per gli strapiombi rossi sommitali. Bell’intuito, non c’è che dire, ma del resto questo lo sapevo già.
Ci mancavano le nuvole, me ne ero scordato… In pochi minuti vengo avvolto dalle solite nebbie del pomeriggio ma la temperatura si mantiene comunque piacevole. Altre 4 ore mi impegnano per i 3 difficili tiri che salgono sotto i tetti della cima del Picco. Non sento più i crampi ma avverto la stanchezza generale nei passaggi obbligati che mi impegnano per troppo poco tempo. Non è un controsenso, quante volte i rischi e la determinazione più ferrea nascono proprio da un momento massimo di spossatezza! L’unica noia, e me lo ricorderò per sempre questo Picco in solitaria, tutti questi traversi e questi pendoli quando devo risalire le corde. Se mai dovessero in futuro fare un esame sulle tecniche di autoassicurazione in solitaria, qui si potrebbe proprio trovare un test ideale.
Piccccooooo, dove seeeeiiiii?
La cima ormai è una virgola sopra di me e tanto per cambiare provo quella stupida scommessa del tiro “lungo”, di passare dalla penultima sosta di Elettroshock alla cima della parete in un colpo solo. La scommessa si perde subito pochi metri sotto la cresta, forse solo 3 o 4 metri di dislivello ma almeno una decina da fare in traverso. Torno indietro un po’ finchè trovo una fessurina in cui fanno bella mostra alcuni enormi chiodacci mezzi fuori, simboli dell’epoca e della via “Nusdeo-Taldo”. Ci affianco un microcamalot, appena arrivati dalla fabbrica e per la prima volta sul mio imbrago. Facciamoli un bel test! Non si tratta di una sfida alla morte ma solo il fatto di non avere più nulla attaccato all’imbragatura. 2 o 3 moschettoni collegano i materiali degli anni ’50 a questi aggeggi del futuro ma il peso di una doppia e di una risalita in jumars sarà affidato solo a queste insignificanti camme di metallo grandi meno di un dito medio.
“ma perché non ho fatto sosta dove avrei dovuto farla?” Argh!
Fortunatamente senza sorprese il “giù e su” non lascia nessun ricordo particolare, ancora dieci metri slegato con prudenza massima (la sfiga ci vede fino in fondo) ed eccomi in cresta, dove ritrovo il sole del versante Ovest del Picco. Ma che ore sono?
Le sette di sera, 12 ore oggi da quando ho cominciato a cui sommo le 2 ore di ieri pomeriggio per i primi tiri. 14 ore? Ah Rampik, ma stai così invecchiando? Se avevi impiegato neanche 6 ore per ripetere la via in cordata ora ce ne metti più del doppio?
Per fortuna sono da solo quando faccio tutti questi calcoli…
E sì che mi sono fermato solo per una sola sigaretta, una sola ripresa video ed un solo sorso d’acqua… che Elettroshock sia stata non la più dura, non la più pazza, non la più alpinistica ma solo la più faticosa solitaria dei miei anni sui monti?
Mistero da rivedere al prossimo giro…
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