Il gruppo del Bernina in inverno, dal Roseg (a sin.) fino al Palù |
(racconto di scalate invernali per la rivista Montebianco)
La Grande Cresta, le prime esperienze personali
Febbraio 1993: un amico l’ha tentata a fine dicembre, raggiungendo la base del tratto più difficile e rinunciando poi per la stanchezza del suo compagno di cordata. I due non avevano con loro il materiale da bivacco e l’amico ottimisticamente prevedeva di compiere l’ascensione in un solo giorno.
Sono a casa rintanato nel locale dove tengo tutto il materiale alpinistico. Preparo tutto il necessario per la partenza, fissata per martedì, e mi accorgo che lo zaino sarà un bocconcino da digerire lentamente. Pur economizzando al massimo con cibo e materiale ho la sensazione di non essere stato troppo pignolo con il bilancino. Tanti indumenti per proteggermi dal freddo che mi attanaglierà durante un previsto bivacco sulla cresta, ciò che è quello che mi spaventa. Tutto è pronto per partire nell’anonimato più completo, senza che i genitori sappiano quale idea ambiziosa sfornava la mia ardimentosa sete di avventura.
Lascio la jeep affondata nella neve crostosa e mi incammino lentamente con gli sci ai piedi raggiungendo il primo rifugio del mio lungo cammino d’avvicinamento.
Vado avanti verso il passo che dà accesso al ghiacciaio sotto la montagna prescelta. Qualcosa non va. Un attacco da scialpinismo comincia a ballare a destra e sinistra, ormai prossimo allo svitamento completo. Cerco di sistemarlo come posso ma capisco che sarà un casino totale, oltretutto senza cacciaviti e pinze che ovviamente non erano previsti nel mio sacco.
Niente da fare, devo ritornare a casa ancor prima dell’inizio delle ostilità invernali, trascinandomi verso il rifugio invernale che nel suo silenzio sembra quasi sorridere beffardo. La notte di febbraio giunge troppo presto, così passerò la notte qui nel locale invernale di questa dimora. Prima che la luce scompaia del tutto esco dalla topaia per ammirare da lontano la cresta. Sembra in buone condizioni. La guardo con un misto di apprensione, paura e soprattutto angoscia, un angoscioso senso di solitudine. Volto lo sguardo e guardo il lago ghiacciato sotto al rifugio; domattina tornerò a casa e lascerò qui lo zaino per il prossimo tentativo: sabato?
Tre giorni dopo ho convinto l’amico Adriano ma per dirla meglio l’ho ingannato.
Ho fantasticato su un’ascensione che effettueremo in un solo giorno, così da permetterli di tornare al lavoro il lunedì mattina. E’ un grande amico e un fedele compagno di cordata; non ho mai fatto cordata fissa con nessuno, ma con Adriano in inverno ho dalla mia la fortuna di essere riuscito a completare tutto ciò che ci eravamo prefissati.
Durante la serata nel freddissimo bunker invernale del rifugio, ci rimpinziamo di integratori, cibi energetici ed ogni altro alimento che cominceremo a smaltire nella durissima giornata che ci attende. Gli zaini sono come al solito ridotti all’osso, la velocità sarà determinante ma in ogni caso il materiale da bivacco l’abbiamo con noi. La mia previsione più rosea ed ottimistica è quella di riuscire ad arrivare sulla cresta sommitale prima del buio e di scendere poi nella notte con l’ausilio delle frontali. Un progetto da prendere però con le pinze; quello che mi ha detto un espertissimo alpinista delle zone lascia dei dubbi ancora insoluti sul nostro più prossimo futuro: “credo che con uno o due bivacchi sarete fuori!”.
Questo non l’ho detto ad Adriano, sennò non veniva.
Alle due della notte entriamo nel mondo notturno invernale, illuminato da una luna splendente e dai raggi delle nostre pile frontali. L’amico sci-alpinista ed ex ciclista professionista mi stacca come nelle previsioni e sembra ormai correre nel vallone nevoso che sale verso l’inizio della cresta. Da buon diesel lo seguo ritmicamente, facendo scorrere gli sci sulle rotaie lasciate dai suoi.
Il profilo della cresta si avvicina sempre più ed acquista man mano un’imponenza che lascia finalmente intravedere le sue giuste dimensioni. la tenue luce del giorno fa la sua comparsa mentre abbandoniamo gli sci e ci lanciamo con piccozze e ramponi nel primo ripido canale nevoso che sale alla cresta.
La corda rimane nello zaino, ognuno sceglie il proprio percorso in un dedalo di rocce ghiacciate, placche nevose e stretti canalini. Mi fermo a scattare una fotografia che a casa, seduti comodamente sul divano, mi impressionerà molto: Adriano supera un salto di rocce e neve, i guanti sulle mani, l’enorme zaino, sotto i suoi piedi il buio di un precipizio molto alto ed in lontananza l’inizio della cresta già superata per metà.
Il viaggio è lungo ma il nostro ritmo è sostenuto. Sono appena le nove e trenta del mattino quando siamo alla base del tratto più difficile della via, un salto roccioso con difficoltà vicine al VI grado.
La roccia è fortunatamente calda, riscaldata dal sole che finalmente ha sconfitto per un poco il gelo di febbraio. La dolcezza dell’arrampicata viene però mitigata dal pesante zaino sulle spalle, dagli insensibili scarponi, dalla piccozza e dai ramponi che ho attaccato all’imbragatura. Siamo alle soglie dei 100 kg che devono salire per queste placche rossastre di rocce serpentine. Un passaggio di V+: un gioco da ragazzi se me lo mettete in una bella palestra d’arrampicata al sole, da salire in T-shirt e calzoncini, solo con il pensiero di superare il passaggio.
Oggi (come del resto nell’alpinismo classico) non è così: Ad un semplice numero ne sommo tanti altri: la quota (3500 metri), il freddo (intorno ai -5°), la parete che ho sotto i piedi (600 metri), lo zaino (15 kg), la fatica (sono 8 ore che siamo in movimento) e via dicendo. E’ un esempio che può ben servire per non associare più la parola “alpinismo invernale” a tutto quello che è l’”arrampicata”.
La scalata della cresta è stata portata a termine con successo, in un solo giorno e con una discesa rocambolesca che ci ha riportati al rifugio solo a notte inoltrata.
Poi, quando i problemi sembrava fossero terminati, scendendo al mattino successivo dal rifugio improvvisamente volo giù dal sentiero in un canale di neve per quasi 300 metri di caduta, quando il poveretto sottoscritto era già con la testa verso altri obiettivi (partivo militare 10 giorni dopo) ed i suoi sci andavano per conto loro.
Finì che mi ritrovarono sul bordo del lago ghiacciato, cosciente ed insanguinato, e riportato a Sondrio in elicottero per 10 giorni di ospedale (rianimazione-urologia-neuro).
:-)
Allenamento per la "Negri", sulla Sassa d'Entova in condizioni invernali |
Al centro il Piz Argent (3945 m) con lo "Spigolo Negri" |
Slegati nei canaletti della parte bassa della cresta |
Adriano in vetta |
Il luogo del mio volo, dalla traccia di sci sulla destra fin giù al lago |
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