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sabato 3 maggio 1997

"La Spada nella roccia", prima solitaria

Prima ascensione solitaria di "La spada nella roccia" (O. e T.Fazzini, N.Riva 1989) in circa 10 ore di arrampicata effettiva, il 2 e 3 maggio 1997.
Bivacco su portaledge alla base della grande lama di centro parete.
Autoassicurazione quasi totale ad eccezione delle prime 3 lunghezze.
Difficoltà originali della via, VIII e A4 (VIII- obbligatorio, ABO).

A metà della "foglia" (foto Andrea Innocenti)

Il racconto del dopo-salita:


30 aprile
L’invito al Festival di Trento è allettante ma ancor di più lo sono i due giorni di bel tempo che si prevedono per il 2 e 3 maggio. Nei miei sogni di quest’anno c’è questa via, un mito delle Alpi Centrali, la “Spada” ovvero la via attraverso la grande lastra. Sono 3 anni che ci penso e forse solo adesso sento il giusto stimolo per andare a provare da solo quella che è una delle vie più dure delle Alpi Centrali. Il suo tracciato si snoda nella parte più verticale e impressionante del Qualido, con forti difficoltà sia in libera che in artificiale e con la firma della cordata più completa che ha mai operato nel Masino, Fazzini e Riva, padroni della libera e dell’artificiale. E poi la “foglia”, una paurosa lastra sospesa a centro parete, salita per la prima volta in artificiale utilizzando una serie di tubi dalla larghezza variabile tra 17 e 27 cm. e ripetuta qualche anno fa in libera dal “maestro” Salvaterra (durante un tentativo di ripetizione), con una dulfer che non vuole esitazioni. Insomma, in barba a tutti queste premesse preoccupanti, decido di non andare al Festival di Trento.

1 maggio
Ho pesato tutto il pesabile; ho ridotto, lemosinato e tagliato via tutto quello che non dovrebbe servire ma alla fine non sono riuscito a farci stare tutto in un solo saccone... Pazienza, vorrà dire che avrò bisogno degli amici per salire domani al Qualido con tutto il materiale. Non ho più tempo di fare due viaggi fino alla parete, per domenica è prevista una perturbazione.

2 maggio
Ore 7.00, partenza in tre verso la parete e alle 9.00 sono finalmente solo, indaffarato a sistemare il mio compagno silenzioso che mi seguirà verso l’alto. Le cenge erbose e oblique mi impegnano nel recupero del saccone e dopo quasi due ore e un primo tiro di 5+ percorso slegato, mi ritrovo sotto il muro che sale alla grande lama. Il tempo trascorre con la difficile arrampicata, la discesa del tiro, la risalita in jumar, il recupero del saccone e una volta in sosta ricominciando il tutto. Raggiungo così la base della grande lama e l’apice delle emozioni quando la tocco per la prima volta: “eccoti qui, sono dieci anni che ti guardo dal basso, non crollare proprio adesso!”. Due lunghezze di dulfer entusiasmanti salendo in velocità e in libera tra le poche protezioni esistenti. Fisso le corde e mi calo fino alla base della lama. Qui, nonostante siano solo le cinque del pomeriggio, decido di bivaccare poichè la stanchezza delle braccia si fa sentire. Un’ora più tardi sono già nel portaledge, sospeso sopra 400 metri di aria della Val Qualido.

3 maggio
La notte è passata lentamente. Ieri mi sono volate giù le calze e a piedi nudi, nel leggerissimo sacco a pelo che avevo con me, il buio e la freschezza dei 2000 metri raffreddavano un poco. Alle sette il sole scende dal “martello” del Qualido verso il centro parete. Riparto risalendo in jumar le corde fissate sulla lama e supero poi l’ultimo tiro di essa, con un ennesima dulfer che sveglia gli avambracci. Da qui partono le placconate verticali della parte superiore, probabilmente la sezione della via che più mi impaurisce. Dopo un tiro in libera su placca, ecco un muro che va superato in A2, all’apparenza alquanto liscio e senza fessure. Lo guardo per dieci minuti finchè scopro la linea di salita, una sottile lametta che sale verso uno spit solitario, in mezzo alla placca. Sarà il tiro più impegnativo, almeno per me, con un unico chiodo a lama a disposizione che mi sono giocato nei primi metri e con una calata di qualche metro su due ski hooks in cima alla lametta. Poi ripartono le placche, sempre su alte difficoltà e alto indice di pericolosità, e si avvicina anche il penultimo tiro, l’”incubo” dei miei ricordi. Quando Tarcisio me lo descriveva otto anni fa, a fatica avrei pensato di trovarmi lì un giorno, da solo, a provare il “6c+ obbligatorio con un brutto chiodo 5 metri sotto il sedere!”. Lo salgo rapidamente, senza pensare a quei due spit arrugginiti che proteggono 40 metri di placca compatta e con il desiderio incessante di trovarmi di fronte alla sosta 15... Poi anche l’incubo finisce!

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